30 marzo 2018

"24 ore"

Una scritta sul muro banale, insignificante, apparentemente innocua eppure tutti nel quartiere sanno cosa significa. Tutti nel quartiere sanno a chi è rivolta. Una gazzella dei carabinieri staziona costantemente davanti casa di Luigi. Il telefono squilla, la sorellina di Luigi, 9 anni, chiede al padre "non rispondi?" il padre le dirà "lascialo suonare". Il giovane legge la scritta dalla finestra di casa. Prepara una borsa e fugge rifugiandosi a Lodi. 
Perché? Cosa c'è in quella scritta di inquietante da spaventare un giovane nel fiore degli anni?

Per scoprirlo dobbiamo tornare indietro di qualche mese... agli inizi del 1975.
Un professore assegna alla classe un tema libero. Il giovane Sergio, di appena 18 anni, decide di parlare delle Brigate Rosse tema che, in quegli anni, riempie le pagine della cronaca nera. Sergio "espresse posizioni di condanna delle Brigate Rosse, aggiungendovi una nota di biasimo verso il mondo politico per il mancato cordoglio istituzionale verso la morte dei militanti padovani del MSI Giuseppe Mazzola e Graziano Giralucci, uccisi durante un assalto delle Brigate Rosse alla sede del MSI". Il tema fu sottratto (o consegnato, forse volontariamente forse sotto minacce) da alcuni studenti di sinistra ed esposto nella bacheca scolastica affinché il giovane fosse sottoposto ad un "processo politico" e marchiato come "fascista". Quello che segue il processo politico oggi sarebbe definito "bullismo", ma, a differenza di oggi, allora oltre agli insulti e le offese personali, si rischiavano sputi, botte, sprangate o, nei casi peggiori, revolverate. La prassi era sempre la medesima. Il servizio d'ordine aggrediva la vittima, durante l'aggressione gli venivano sottratti i documenti di identità ed eventualmente "agende telefoniche" (rubriche tascabili in uso all'epoca) o i diari in modo da schedare l'aggredito e acquisire altri nomi da inserire nello schedario, perché chi era amico di un "fascista" era "fascista" a sua volta.
Dopo il "processo politico" Sergio viene perseguitato dai compagni di scuola, perché ha la sfortuna di frequentare una scuola, cosiddetta, "rossa". Giunto al punto di esasperazione è costretto a cambiare scuola, ma il giorno in cui si reca, assieme al padre, per spiegare le ragioni del ritiro subisce una nuova aggressione sta volta fisica e non solo verbale.
Ormai non ha molta scelta e per sentirsi, in qualche modo, protetto decide di iscriversi al "Fronte della Gioventù" la sezione giovanile dell'MSI. 
Per sua stessa natura il giovane Sergio mette impegno in tutto quello che fa, così ottiene buoni risultati a scuola, buoni risultati sui campi da calcio del quartiere, ha una fidanzata, ed ora, un impegno politico. In breve tempo diventa "fiduciario" frequenta la sede di via Mancini. Spesso incuriosisce le persone che frequentano la cosiddetta "Area" perché non si "veste" come un fascista, non si "pettina" come un fascista (porta infatti i capelli lunghi), ma si stupiscono quando viene detto loro che quel ragazzo così giovane è il "fiduciario" del Molinari, un istituto superiore, considerata la più pericolosa scuola del milanese perché è interamente "rossa" gli stessi professori sono politicizzati e sono di sinistra, così come il preside.
Sergio svolge gli incarichi che il partito gli assegna, ma non si macchierà mai, nella sua vita, di azioni violente.
Gli esponenti di Avanguardia operaia decretano che Sergio deve essere colpito, ed il 13 marzo 1975 l'ordine viene eseguito. Un commando di 10 persone si apposta sotto casa del giovane fascista, non lo conoscono personalmente, non sanno che colpe ha commesso, sanno solo che è un fascista e come tale deve essere colpito. L'esecuzione materiale dell'azione è affidata a due militanti che, armati di chiavi inglesi da due chilogrammi ciascuna, iniziano a percuotere Sergio al capo, vorrebbero stordirlo, ma il ragazzo è forte e non perde i sensi, continuano a colpirlo finché non gli spappolano il cranio.
Una donna grida dal balcone "Basta! così lo ammazzate!", la madre di Sergio, il commando fugge nell'anonimato.
Si devono aspettare 10 anni per scoprire che gli aggressori non sono delinquenti ignoranti e brutali, ma affermati medici (all'epoca semplici studenti di medicina), il fratello di un magistrato e una staffetta (una biologa-ricercatrice) tutti appartenenti alla Milano "bene", alla media borghesia... insomma non proprio un'avanguardia "operaia".
Sergio è trasportato in ospedale e sottoposto ad un intervento di 5 ore. Nei giorni successivi entrerà ed uscirà dal coma più volte, ma i medici concordano che, se anche fosse sopravvissuto, la qualità della sua vita (come si direbbe oggi) sarebbe stata seriamente compromessa.
Appena ha avuto nuovamente modo di parlare la prima cosa che chiede alla madre sono i suoi libri di scuola perché deve preparare l'esame di maturità.
Alle 10 del mattino del 29 aprile 1975 Sergio Ramelli muore.

I funerali diventano una farsa. Famigliari e amici si raccolgono davanti all'obitorio per accompagnare Sergio fino alla chiesa, che dista solo poche centinaia di metri, la parrocchia che frequentava, in cui giocava a pallone. La polizia di Stato, incitata e intimidita dalle pressioni istituzionali e dalla minaccia rossa, non è d'accordo e carica più volte i "manifestanti" arrestando alcuni di loro per apologia di fascismo, poco distante gli aggressori scattano foto agli intervenuti per poterli schedare come fascisti.
A favore del corteo funebre (pratica abituale in ambito cattolico) interviene anche il parroco della chiesa (un ex partigiano cattolico), ma la Polizia e inamovibile. Il feretro sarà infine scortato fino alla vicina chiesa da una camionetta della Polizia, ma non possono certo salire le scale del sagrato... di far percorrere alla bara le ultime decine di metri si fanno carico alcuni amici e membri del partito (tra cui Giorgio Almirante).
Nella notte di quel funesto giorno, sul muro davanti alla casa di Sergio, comparirà una scritta "24 ore". Un monito per il fratello Luigi che, se non fosse fuggito, sarebbe stato ucciso entro 24 ore.

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